Lo Slow Wine Fair si è appena concluso, una manifestazione incentrata su una serie di incontri relativi a
tematiche attuali in ambito vinicolo.
Pilastri di questa manifestazione sono il vino buono, la tutela del paesaggio, l’equità sociale nel lavoro in viglia, il ruolo sociale del vino; ma anche la sostenibilità, le soluzioni tecnologiche moderne, gli impianti, le attrezzature, i servizi connessi alla filiera del vino. Ma conosciamo a fondo cosa si intenda per vino buono e per produzione attenta e consapevole?
Ma cosa si intende con vino buono, pulito e giusto?
La tematica del vino buono, pulito e giusto è una tematica introdotta per l’appunto dal manifesto dello Slow Wine Food Fair, che si propone per insegnare a dare il giusto valore al cibo.
Il vino è da sempre sinonimo di convivialità e per apprezzarlo bisogna imparare a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio.
Un vino buono, pulito e giusto è un vino la cui produzione promuova una crescita culturale, economica e sociale, etica e armonica sul territorio; rispettando il paesaggio e l’ecosistema nel quale si opera, impiegando materie prime locali e prodotti biologici, evitando l’utilizzo di pesticidi e riducendo il consumo del suolo, tutelando i diritti dei propri dipendenti e fornitori.
VINO BIO
Molto importante è anche la definizione di vino bio. Un vino viene detto biologico quando proviene da uve 100% biologiche, coltivate quindi senza l’utilizzo di agenti chimici e la cui vinificazione in cantina è avvenuta grazie all’utilizzo di prodotti enologici certificati biologici e un quantitativo limitato di solfiti.
DENOMINAZIONE DEI VINI
Un tema molto discusso recentemente, e anche protagonista di questa nuova edizione dello Slow Wine Fair è il tema delle denominazioni: DOC, DOCG, DOP, IGT, IGP.
Ma cosa si intende? Quali sono i vantaggi di questo sistema?
In Italia possiamo vantare già più di 419 denominazioni. Vediamo qui alcune tra le più pregiate presenti nel nostro listino: Fiano DOP Cilento Valmezzana; Puglia IGP Chardonnay Primadonna Varvaglione; Primitivo di Manduria DOCG Chicca Dolce naturale; Salento IGT Rosato Calafuria Tomaresca Antinori; Aglianico Del Vulture DOP Rosso Verbo Cantina di Venosa; Moscato d’Asti DOCG Paolo Saracco; Falanghina del Sannio DOP La Guardiense.
Come possiamo vedere l’Italia in ambito gastronomico è un puzzle di denominazioni, sigle, certificazioni, consorzi. Queste denominazioni sono nate con l’intento di proteggere i territori del vino, di cercare di difenderli dalle derive dell’approccio industriale, dalla filosofia del profitto e basta.
Tuttavia, recentemente si è aperto un dibattito in merito, secondo cui le denominazioni sono troppe e vi è un problema a monte e cioè che il loro scopo originario è stato in gran parte disatteso. Se l’obiettivo iniziale era quello di salvaguardare le produzioni con un forte radicamento territoriale, storico e culturale e che, con l’apertura del mercato unico europeo, rischiavano di non essere più difese, si è finiti per cercare di ottenere il monopolio artificiale utilizzandole prevalentemente come strumento di marketing. Si è quindi ribaltata la logica.
Da una parte quindi il meccanismo delle denominazioni ha effetti positivi sul vino innalzandone la qualità media del prodotto, escludendo quelli che non rispettano un certo standard, quindi la denominazione rappresenta una garanzia di qualità per il consumatore.
Esistono però anche grandi vini che non hanno denominazione, come i Super Tuscan, di cui è presente sul nostro catalogo online il Guidalberto Tenuta San Guido 2019.
Quindi questa tematica della denominazione nel lungo periodo se non prudentemente utilizzata potrebbe diventare un’arma a doppio taglio.